Questa casa non è un albergo. Tipico del conflitto generazionale d’antan. Siamo sinceri: quante volte anche noi, generazione del “io non sarò come i miei genitori” e della psicologia integrata al biberon, abbiamo sentito e represso l’impulso di gridarla, sorprendendoci di aver finalmente capito cosa spingesse i nostri genitori a ricordarcelo sempre più spesso, soprattutto dai 15 anni in poi.
La mia è stata forse l’ultima generazione destinataria della famosa esternazione genitoriale. Certo che ricordo ancora: i nervi, la frustrazione e la rabbia di allora ma oggi, dopo decenni, mi sento di ringraziare i “miei”. Con il senno di poi, mi rendo conto della seconda e anche terza lettura che si celavano dietro un conflitto familiare che veniva chiuso dal più forte, il genitore.
I ruoli erano sicuramente maggiormente definiti e i genitori erano chiaramente gli adulti nella relazione. Noi figli potevamo disperarci quanto volevamo ma, psicodramma a parte, il genitore rimaneva per lo più immobile, come un Everest..
Cosa accadeva quindi?
Accettare l’esistenza di regole…
Che imparavi a prendere consapevolezza dell’esistenza delle regole, alle quali non potevi che attenerti. Erano chiari i ruoli: da una parte il genitore, come figura di riferimento del mondo degli adulti, e dall’altra te, che eri “solo” il figlio.
Nel riconoscimento dei ruoli era piuttosto evidente che se non avessi introiettato al più presto i concetti di rispetto e di umiltà sarebbe stata una vita difficile, con il rischio di permanenza eterna nel girone dei “piccini”.
Ma forse l’aspetto di maggior rilievo era che prima o dopo non avresti avuto scampo e ti saresti trovato a fare i conti con le tue emozioni, perché diciamocelo: a nessuno fa piacere dover abbassare la cresta e sentire montare da dentro, progressive e inesorabili, rabbia, frustrazione, dolore, con conseguente incontrollabile desiderio di vendetta e inevitabile pianto catartico, finale.
Nel conto della vita c’era anche stare male, rintanati nel proprio anfratto dediti a immaginare scenari degni di Kubrick, pur di sottrarsi da quel logorio. In realtà, vivere le emozioni ci ha permesso di conoscerci a un livello più intimo, imparando ad ascoltare, i più evoluti anche ad accettare, quello che arrivava da dentro di noi. Ci siamo abituati un po’ alla volta a dare un nome a ciò che sentivamo: stomaco chiuso significa rabbia? Respiro corto, frustrazione? Voglia di piangere, dolore? Ebbene, si chiamano emozioni.
In ogni caso te la dovevi gestire da solo rinunziando al pubblico adulto perché loro avevano cose più importanti cui pensare che non assistere ad una scenata per un no.
… per imparare a gestire conflitti ed emozioni
Rileggendolo mi rendo conto solo ora di quanto assomigli ad un racconto dell’orrore ma in realtà era sano e propedeutico soprattutto per imparare a gestire un contraddittorio o un conflitto, partendo da una situazione di famiglia tipo ovviamente. Imparare a gestire le emozioni e non reprimerle, ossia vedere la realtà per come è e non per come vorremmo che fosse. Ascoltare l’emozione che sale dal corpo e provare ad agire anziché reagire. Quello che è impossibile per un bambino, che non sapendo come gestire le emozioni davanti a qualcosa che non corrisponde a ciò che vorrebbe non è in grado di agire, e infatti reagisce con la temutissima bizza, direttamente proporzionale alla grandezza del divario tra ciò che avrebbe desiderato con ciò che è. Ma infatti è un bambino.
In conclusione nessuno nasce imparato, per diventare adulti il percorso è lungo e non si può pensare di non passare da un bagno di realtà, perché la vita richiede forza, e la vita non è come vorremmo: la vita semplicemente è. Quindi è difficile pensare di potercela fare senza arrivare ad una struttura interiore che contempli anche umiltà, rispetto per le regole e per chi ne sa più di te. E’ una gavetta, la stessa che augurerei a chiunque stesse per approcciarsi all’entrata nel mondo adulto per eccellenza, quello del lavoro, che ieri come oggi non può prescindere da: rispetto dei ruoli, della gerarchia e delle regole comuni e ovviamente dall’umiltà.